martedì 22 febbraio 2011

uno

Aveva un malessere cinereo che gli storpiava gli occhi e un sapere nel piede sinistro. Lo vidi per la prima volta, quel piede, darsi da fare pigramente, discreto ma fiero di sé. L’incarnato di una conoscenza primordiale. Io, nei piedi, non sapevo niente. Umili strumenti della testa, quella sapeva. Ma quando non riesci a prendere il sopravvento sugli strumenti, hai un bel dire a mostrare a tutti che la testa sa. Quanto agli occhi, stavo immobile a fissarli mentre ciascuno asciugava i propri capelli allo specchio degli spogliatoi. Vedevo la testa che pareva mossa dai lunghi ricci lì intorno e quegli occhi riflessi, funerei e come senza uno sguardo. «Come Perseo» mi misi a paragonare. «E io sarei la Medusa?» comprese con la stessa sveltezza con cui mi aveva fatto passare la palla tra le gambe un battito prima di segnare il due a zero. Ne fui ugualmente sorpreso, e per via della stessa presunzione.

Così al primo incontro avevo già imparato a temerlo sia in campo che fuori. Ed ecco perché desiderai subito che fosse mio amico. «Cristo, come hai giocato!» sviolinai. «Sei lento ma hai un bel destro» non perse tempo lui, «che la palla va dove dici tu, non come il Bonni, che si crede ma ogni volta la tira a Ramengo». Non aveva mutato espressione. «Almeno non trovasse sempre una scusa» ricordai io, azzardando una complicità parecchio invadente. «Lascia perdere, orcozio, pensa che le più incredibili oggi se le è tenute via» condivise scavandosi due solchi sotto gli zigomi, e capii che quello doveva essere il suo sorriso e che io ci avevo visto giusto: lo odiava, quel centrocampista.

Davanti alla prima di troppe birre, quella sera – la prima di troppe – tramavamo. «Una brutta stagione è un conto, ma perché correre incontro ai cannoni se te ne puoi stare un mese al riparo a Rimini-Riccione?» iniziai. E lui assecondava: «Queste partite le detesto, mi mettono sempre lì uno che non gioca mai d’inverno e ha fame di caviglie, l’erba – quando c’è – pare melassa e i piedi non sono mai liberi». «Mica ci possono fucilare se disertiamo». «Perdio, no, ma tu hai già deciso cosa fare l’anno prossimo quando non avrai una squadra?». «Credi ci butteranno fuori se non giochiamo? Che poi io, per me, non è che cambi molto» lamentai con la mia solita modestia che è solo frustrata superbia nell’atto di sottomettersi come un cane per avere una goccia di adulazione. «Se davvero fondono le squadre, qualcuno dovrà pur uscire». Niente goccia. Rimediai con la birra, presi tempo. «Più ci penso e meno questa vicenda mi convince. Odora del pasticcio fatto con gli avanzi – funestavo – ma della cena di qualcun altro. Finché non ingoi non lo sai che è letame». «Non sarà che pensi troppo? Preoccupati di farmela trovare lì quando mi smarco tra le linee. Domani glielo diciamo al Tony» volle rassicurarmi lui. «Quindi tu vuoi davvero giocare?» finsi stupore, solo per indagarlo. «Fosse anche il disastro che sarà, una tournée in Germania nell’anno dei Mondiali me gusta mucho, se qualche scout mi nota mica ci sputo su e se poi torniamo indietro solo carichi di birra paceamen e mi son pagato le ferie a Mykonos o soilcazzo dove».

«E con chi ci vai, maschione latino?», affondo. «Di sicuro non con te. C’hai il culo troppo basso», parata e risposta. Mi piaceva davvero.

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