sabato 26 febbraio 2011

due

La parte uno è qui.


Fu così che conobbi Mousse e, lo ammetto, la mia ammirazione era già stata stimolata dal primo incontro con la delicatezza sfrontata con cui un Adamo avventura le sue dita per la prima volta verso il frutto originario della sua Eva.

«La squadra è già fatta, Kant – iniziò a interrompermi Tony – e poi tu vieni qui come se non sapessi che non dipende davvero da me». «Che storie mi racconti, Mister. Ti fanno allenatore e non decidi tu chi arriva in divisa e chi in tuta? A ‘sto punto accettavo l’offerta del Milan». «A piegare gli asciugamani» valutò col ghigno da Vecchio. «Che ironia, Mister. – ingoiai l’amarezza con un fruscio in gola – Ma me lo spieghi per filo e per segno perché al Dieci non deve stare uno che sa giocare? O quello buono ti piace così tanto che te lo vuoi tenere seduto accanto?». «Senti, nemmeno tu sei sicuro che ti metta lì in mezzo. A me m’importa ‘na sega se tu e Mousse siete diventate amiche del cuore, ma se proprio insisti ti ci faccio sedere in braccio».

Tony masticava una gomma e aveva una cicca tra le labbra. Come sempre. Ma un’altra sigaretta andava consumandosi in proprio, dimenticata e sola nel posacenere in fondo al tavolo. Come fu che la notai, capii che la giornata del Mister passeggiava storta come un’ubriaca, nel tentativo indecente e già frustrato di non sentirsi umiliata dalla presenza altrui. Cioè da me. Mi sentii in colpa, facevo il filo a quest’uomo e avevo come rivali i suoi problemi e come unico alleato il suo orgoglio. Fare leva su quello era da vigliacchi. Soprattutto perché lui avrebbe pagato per starsene solo a far l’amore con alcol e sigarette, e perché sapevo che poteva solo peggiorare. Come prevedevo, Mousse entrò nell’ufficio.

Forse dovrei dire invase l’ufficio. Il portamento bestiale, che lo distingueva tra tutti in campo, sembrava precederlo. Il fuoriclasse lo riconosci anche quando non fa nulla, come di un’altra specie, uguale solo a sé, l’unicità messa in scena. Sempre al corrente della propria solitudine. Mai un gesto disarmonico e una voglia di saperlo compiere che pulsa appena sopra lo stomaco. Nel salto nel vuoto – e senza paracadute – dei suoi diciannove anni, prese palla: «Mister, perché non mi fai giocare?». Niente male, pensai, ma «Per te è “Signor Mister”, Angelina» chiuse Tony come mi aspettavo. Pausa. «Signor Mister – provocava? – io e Ilquipresente siamo perfetti insieme, e lei lo sa, ci ha visti l’altro giorno». «Al Dieci siamo coperti» cambiò gioco Tony. Ma su quel lancio potevo provare a intercettare: «Mister, mica te lo dovrò dire io che Svizzera non manda più in porta un centravanti da febbraio e non salta un uomo nemmeno se fatto di cartone». «Si chiama Svizzera?» fece per ridere Mousse. «Lascia perdere. Mister, detesto fare il venditore di pentole con te. Ma questo qui è una zingara: nemmeno lui sa quale demone gli ha fatto ‘sto regalo, fattostà che la palla gli sussurra il proprio futuro». «Stessa cosa che dico io a Crespi – mi contropiedò Tony – e lui mi risponde che di palle di cristallo non vuol saperne, solo Sostanza». «Niente metafisica, datemi solo metafisica. Il Lìder capisce di pallone quanto di politica, parla perché ha i soldi» spiegai a Mousse. Tony ne approfittò, più toscano del solito: «Dì pure ‘he parlano i suoi sordi. Ma te tu gio’hi grazie a quelli, sicché…». Silenzio.

Nell’ammettere implicitamente che Svizzera gli era stato imposto davanti a Mousse, Tony era riuscito anche ad avere ragione delle nostre lamentele. E sinceramente non me la sentivo di tormentare oltre il Vecchio Little, la vicenda era un cucchiaio di veleno prima per lui che per noi. A noialtri fregava di giocare e basta – a me nemmeno poi tanto –, invece lui metteva la firma sui destini di ventitré ragazzi senza aver davvero il potere di decidere. Quando Mousse fece per dire: «Se non ha l’autorità per fare il suo lavoro, che ci sta a fare?» vidi la sigaretta di Tony ammosciarsi tra le sue labbra, tappai la bocca del riottoso con uno sguardo da minaccia cinematografica e prendemmo la porta, avanti io poi lui.

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