mercoledì 23 marzo 2011

sei

Adesso sono cazzi. Il loro Sette è un levriero, gambe lunghe e corpo sottile. La testa gli si muove come se il collo non fosse vertebrato e non si capisce mai dove vuole andare, ed infatti salta Carmine per la centesima volta. Siamo sbilanciati. Mi sembra di essere uscito da una bolla solo qualche istante fa. Il primo tempo è volato via. Ecco il levriero prende il fondo, sembra che se la sia allungata ma ha contato bene i passi. Non so bene come, siamo ancora zero a zero. 
Il Tony era una vipera, nello spogliatoio, ne aveva per tutti. Appoggia la punta del sinistro e compie una mezza torsione da quella parte, a mezzo metro dalla riga. A me non aveva detto nulla, infatti non ero uscito dal mio solito torpore e i minuti avevano continuato a volare. Garda urla, vedo Monte sul dischetto che dà un’occhiata al Nove – che chiamano Micah – poi a Garda, poi di nuovo a Micah che s’è staccato in mezzo. Stavolta è diverso, lo prendiamo. 
Avevamo avuto un’occasione, anche più grande di questa. Il levriero la calcia, la spaccata di Carmine vuole un corner, ma è disperata e, infatti, inutile. Svizzera aveva tirato fuori dal cilindro una magia vera, ma quando era stato di là dal centrale aveva appoggiato con sufficienza al Milite, che era arrivato tardi. È bella, si vede subito, dio se l’ha presa bene! E il Monte non la può anticipare. Il Tony era diventato color del vino a forza di urla e non s’era ancora sbiancato. Micah va su come un martello, il corpo piegato indietro, la vuole incornare dritto per dritto. Qualche istante dopo mi ero sentito risvegliato, un paio di bei passaggi profondi, anche un controllo d’esterno a seguire.

mercoledì 16 marzo 2011

cinque

«Quel che vi danno qui è anche meglio del cibo in scatola. In scatologia, vorrei dire» fu il biglietto da visita di Ipsilon per Mousse. «Benvenuti in Paradiso. Potete scattare fotografie, ma rigorosamente senza flash» rispose l’altro e non ci fu bisogno di ulteriori presentazioni. Io, per me, addentavo la patata scondita senza riconoscerne la forma, lasciamo perdere il sapore. Mentre il nostro imperforabile Garda cercava di zittire la sala per sentire Carletto che dal tigiuno proclamava: «Il Milan è estraneo», i miei commensali, non degnando di uno sguardo nessuno di quei due, spandevano familiarità: «Allora domani ti vedi l’inaugurazione?» faceva Mousse, e l’altro: «Pare che ci sarà un gruppo di cantanti, un inno da stroncarti per la noia, ad aprir la cerimonia». «Però giocano i crucchi», pensava di poterci parlare di pallone, il ragazzo.

lunedì 7 marzo 2011

quattro

Si partiva. Le lande teutoniche, attrezzate a festa per l’evento del nuovo millennio, sarebbero state ospitale teatro delle nostre vicende estive, ben meno nobili e solo parassite di quelle delle maestose spedizioni in marcia da 32 paesi. Con rapace opportunismo, avremmo beneficiato di una nazione con il sorriso tirato a lucido e i tappeti rossi stesi, certo non per noi, ma così era anche meglio, zero responsabilità. «Parla per te» mi avvertirono gli occhi funerei. «Eddài, sono giorni che sai dire solo questo». Aveva due lapidi in mezzo al viso, un corteo funebre. Finse di non aver sentito. «Francamente, se non mi dici cosa vuoi, ti metto in camera con un manico di scopa», incalzai. Il funerale continuava, in rispettoso silenzio.
Scriteriato, voleva giocare, adesso. Aveva un bel da fare, con la sua aria naturale da chissenefrega del mondo, per darla a bere, prima di tutto a se stesso. Ora che le partite della tournée si avvicinavano, la fiera elegante si trasformava in un animale allo zoo, tutta la bestialità repressa dall’incertezza. Il desiderio di correre libero, gonfiare il petto, squarciare gli avversari era viscerale e giovanile, che poi è lo stesso.

giovedì 3 marzo 2011

tre

La fermo e già la muovo. Con l’esterno, sciolgo il suo tracciante e ne cambio il destino, direzione destra, la gamba l’ha sentita docile senza bisogno di chiedere all’occhio di controllare, allora lei s’è già alzata all’indietro mentre quello fissa la posizione, trenta metri più avanti, c’è il Milite che sgomita e la vuole sul sinistro, ma l’orso che lo cintura mi aspetta al varco, un lampo d’occhi e già cerco Svizzera, dannazione a lui se venisse incontro una volta, corre dritto verso la lunetta. Ora se non calcio ho perso il tempo, calo la mannaia con poca fiducia e scelgo di usarla come un rasoio. Ho avuto l’impressione in quel fugace attimo che l’orso l’aspetti tesa per anticiparla e abbia già messo un piede avanti, spero di farla galleggiare in aria senza peso sopra la sua testa e appoggiare come piuma davanti al Milite, a sinistra. Ed eccola che va. Sul piede l’ho sentita, rassicurante e sincera. Spero non presuntuosa. Sale e sta su, sfida la gravità il tempo che sarebbe adatto ad un fotografo per scattare, poi la asseconda, e ora viene decisa.

sabato 26 febbraio 2011

due

La parte uno è qui.


Fu così che conobbi Mousse e, lo ammetto, la mia ammirazione era già stata stimolata dal primo incontro con la delicatezza sfrontata con cui un Adamo avventura le sue dita per la prima volta verso il frutto originario della sua Eva.

«La squadra è già fatta, Kant – iniziò a interrompermi Tony – e poi tu vieni qui come se non sapessi che non dipende davvero da me». «Che storie mi racconti, Mister. Ti fanno allenatore e non decidi tu chi arriva in divisa e chi in tuta? A ‘sto punto accettavo l’offerta del Milan». «A piegare gli asciugamani» valutò col ghigno da Vecchio. «Che ironia, Mister. – ingoiai l’amarezza con un fruscio in gola – Ma me lo spieghi per filo e per segno perché al Dieci non deve stare uno che sa giocare? O quello buono ti piace così tanto che te lo vuoi tenere seduto accanto?». «Senti, nemmeno tu sei sicuro che ti metta lì in mezzo. A me m’importa ‘na sega se tu e Mousse siete diventate amiche del cuore, ma se proprio insisti ti ci faccio sedere in braccio».

martedì 22 febbraio 2011

uno

Aveva un malessere cinereo che gli storpiava gli occhi e un sapere nel piede sinistro. Lo vidi per la prima volta, quel piede, darsi da fare pigramente, discreto ma fiero di sé. L’incarnato di una conoscenza primordiale. Io, nei piedi, non sapevo niente. Umili strumenti della testa, quella sapeva. Ma quando non riesci a prendere il sopravvento sugli strumenti, hai un bel dire a mostrare a tutti che la testa sa. Quanto agli occhi, stavo immobile a fissarli mentre ciascuno asciugava i propri capelli allo specchio degli spogliatoi. Vedevo la testa che pareva mossa dai lunghi ricci lì intorno e quegli occhi riflessi, funerei e come senza uno sguardo. «Come Perseo» mi misi a paragonare. «E io sarei la Medusa?» comprese con la stessa sveltezza con cui mi aveva fatto passare la palla tra le gambe un battito prima di segnare il due a zero. Ne fui ugualmente sorpreso, e per via della stessa presunzione.