Si partiva. Le lande teutoniche, attrezzate a festa per l’evento del nuovo millennio, sarebbero state ospitale teatro delle nostre vicende estive, ben meno nobili e solo parassite di quelle delle maestose spedizioni in marcia da 32 paesi. Con rapace opportunismo, avremmo beneficiato di una nazione con il sorriso tirato a lucido e i tappeti rossi stesi, certo non per noi, ma così era anche meglio, zero responsabilità. «Parla per te» mi avvertirono gli occhi funerei. «Eddài, sono giorni che sai dire solo questo». Aveva due lapidi in mezzo al viso, un corteo funebre. Finse di non aver sentito. «Francamente, se non mi dici cosa vuoi, ti metto in camera con un manico di scopa», incalzai. Il funerale continuava, in rispettoso silenzio.
Scriteriato, voleva giocare, adesso. Aveva un bel da fare, con la sua aria naturale da chissenefrega del mondo, per darla a bere, prima di tutto a se stesso. Ora che le partite della tournée si avvicinavano, la fiera elegante si trasformava in un animale allo zoo, tutta la bestialità repressa dall’incertezza. Il desiderio di correre libero, gonfiare il petto, squarciare gli avversari era viscerale e giovanile, che poi è lo stesso.
«Com’è successo che hai imparato?» svogliato, tanto per dire. Lui fece finta: «Che cosa?» fissava qualcosa di là dalla recinzione. «Lo sai, come hai capito questo?» passando un palmo nell’aria, quello che fai, intendevo. «Dici bene, l’ho capito, mica imparato – sotto gli occhiali da sole – non me l’avevi mai chiesto, prima». «Ero invidioso» sorrisi amaro. «Tu? Ma se io pagherei per calciare un pallone come fai te». Quella panchina era scomodissima e la giornata non era affatto calda, si stava un po’ nella sottile precarietà dei lunghi tramonti estivi. «Non ti dà fastidio se fumo, vero?» provocò, con il solito ghigno e già infilava una mano nella borsa, che teneva a tracolla nonostante fosse seduto, accomodata sulle ginocchia, ne uscì un pacchetto di Camel Light e un istante dopo bruciava la prima. Di una lunga serie, come ogni sera. Le labbra si protendevano con maniera e tiravano corpose, era naturale guardare il vuoto dove il suo sguardo vagava, per vederci come lui, questo se non lo conoscevate. Io ormai guardavo lui, era diventato uno spettacolo più affascinante.
Soprattutto avevo rinunciato a capire: solo Narciso vede se stesso nel riflesso dell’acqua, gli altri ci ritrovano ancora Narciso e allora è meglio osservare lui che si incontra. Ci si conosceva da anni, ma c’era ancora l’esigenza di rompere il ghiaccio, mi piaceva molto, «Come la vedi?» scalpellai la prima crepa. «Onestamente maluccio, siete fiacchi e svuotati e se consideri che tu sei uno dei più vogliosi, mi hai capito» e aspirava, arido. «Non dico noi, cosa vuoi che me ne freghi, non sei mica qui per noi, tu, no?». «Ah dici quelli là, quelli Veri. La vedo peggio, lucidamente. Ma, a voler credere ai santi, sono stato ieri al ritiro e quel che dicono i giornali non è finto, si vede davvero che non gliene frega niente del casino che c’è in Italia. Anzi, no, gliene frega: sono un filino incazzati, ecco cosa». «E questo è buono» m’infilai io. «Al Brasile farebbe male, ma noi siamo demolitori, e con le palle piene spacchiamo di più» proverbiò lui. E io ero d’accordo: «Allora a posto. Tu chi segui, alla fine?». «Te l’ho detto, di sicuro i Nostri le prime tre. Dopo quelle... “si sta come d’autunno – pardon – d’estate, nei crauti lo stinco di porco”» e gli sembrarono modo e momento perfetti per gettare la sigaretta nel sottobosco.
«A proposito, ceni con noi? Un posto in più lo rimediamo sicuro e non credo ti paghino dei pasti tanto migliori» invitai. «Se è per questo, è già tanto se non viaggio a spese mie, figuriamoci i pasti. Piuttosto, precisamente “noi” chi?».
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